CHI SONO

Mi chiamo Antonio Maoggi sono un fiorentino nato sotto le bombe dell’ultima guerra, da ragazzo avevo grandi sogni di scrivere, ma bisognava andare a lavorare per aiutare la famiglia e, questo è successo, però la passione è rimasta, ma lavoro, famiglia e figli me lo hanno impedito. Una volta libero come pensionato ho preso carta, penna ed ho cominciato a scrivere e non mi sono fermato più e tutt’ora sto scrivendo l’ultimo racconto. I miei lavori sono tutti inseriti in questo blog in basso sulla fascia lateralmente a destra e, se qualcuno fosse interessato, basta che lo comunichi, e tramite mail che vorrete cortesemente comunicarvi, invierò gratuitamente il racconto in formato PDF, poiché scrivere è fantastico, ma essere letto lo è ancora di più! mascansa@outlook.it

mercoledì 10 dicembre 2025

AL LADRO AL LADRO

  AL LADRO 

Erano gli anni Sessanta, la tecnologia odierna era ancora lontana e anche il settore tessile era fermo alla pura meccanica; l'elettronica era riservata solo ai militari e ai paesi più avanzati, in particolare agli Stati Uniti d'America. 

Antonio appena uscito dalle scuole tecniche, era stato assunto dalla filiale fiorentina di un'azienda milanese che costruiva macchine rettilinee da maglieria, la CO.M.UT (Costruzione Macchine Utensili). L'acronimo era rimasto quello originario, poiché prima della guerra la fabbrica, il cui titolare era il faccendiere toscano Giorgio Casciani, sorgeva nella zona nord di Milano ed era stata distrutta per metà dai bombardamenti alleati, riducendo così di metà lo spazio produttivo. Ed è per questo motivo che, gioco forza, la CO.M.UT aveva differenziato la sua produzione, passando dalla produzione di torni e affini a quella di macchine rettilinee per maglieria, che aveva chiamato con il nome del marchio delle vecchie macchine utensili: "WAHLT". 

La filiale era subentrata in un negozio già esistente che trattava macchine da maglieria, la "Maglitalia", il cui proprietario, certo Giuliano, aveva un vizietto: il "Campari Soda". Tanto è vero che, per via di questa sua abitudine, gli avevano affibbiato il soprannome. A causa del suo alcolismo, la sua ditta stava andando in malora, quindi il falco predatore di Monsummano Terme, Casciani, venuto a conoscenza delle sue difficoltà finanziarie, la acquistò per un tozzo di pane.

Da Milano, il Casciani inviò a dirigere la nuova filiale un giovane poco più che un ragazzo: aveva solo ventisei anni, undici in più di Antonio, che era il più giovane della ditta. L'uomo era Riccardo Pistoja, figlio di un padre ebreo e di una madre tedesca: un ibrido così improbabile che, nonostante la giovane età, era già un boss navigato. Il Casciani stimava molto il Pistoja, sia per la sua capacità imprenditoriale che per la sua notevole dedizione al lavoro.

Della vecchia Maglitalia erano rimasti nei magazzini una lunga cassettiera piena di pezzi di ricambio per macchine da cucire "Singer", le gloriose Singer nere con le decalcomanie dorate, presenti in quasi tutte le case di allora, e tanti altri accessori: arcolai, bobinatori, paraffina in anelli e in quadretti. Antonio Maoggi fu incaricato di occuparsi della vendita degli accessori e di assistere i clienti, mentre i produttori esterni si occupavano della vendita dei macchinari. 

Dietro al bancone di vendita, nascosto da una finestra scorrevole con il vetro opaco, si trovava l'ufficio dell'amministrazione, guidato dalla signora Luciana Giuliana, figlia dell'ex titolare della Maglitalia e già amministratrice della ditta paterna. La scelta di Pistoja di affidare l'amministrazione a Luciana, nonostante i precedenti del padre, fu strana, ma la donna, oltre a essere molto capace nel suo lavoro, il crack fu causato solo ed esclusivamente dal padre, conosceva bene la storia della vecchia ditta e sapeva muoversi con sicurezza nei contatti con i fornitori e i vecchi clienti. Luciana era coadiuvata da una ragazza un po' più grande di Antonio, Vanna, una vera lavoratrice instancabile, molto attiva, che in pochissimo tempo divenne il suo braccio destro e sinistro.

Gli altri impiegati erano Carlo Casati, un meccanico provetto di macchine per la maglieria, il capofficina, un tarantino di cognome Catapano completamente glabro a causa dell'alopecia, e suo nipote Gianni, un apprendista. Questi uomini lavoravano in un complesso a nord della città, che in precedenza era una vecchia fabbrica di ghiaccio poi adattata a officina. Per il trasporto dei materiali c'era un motocarro chiamato "Ercolino", un motocarro a tre ruote derivato dallo scooter "Galletto" della "Moto Guzzi". L'Ercolino aveva lo sterzo a manubrio, tre marce e tre ridotte, ed era molto potente, in grado di sopportare grossi carichi, non a caso la Guzzi lo aveva battezzato "Ercolino". 

Il motocarrista era Mario Paci, un uomo maturo completamente canuto, che si occupava di trasportare le macchine dall'officina al negozio e di effettuare le consegne esterne, sia di macchine revisionate dall'officina, sia di macchine nuove. Insomma, il Paci era il vero factotum della filiale. 

Insieme a lui, al negozio lavorava anche Franco Scianca, fidanzato di Luciana, che, oltre a essere un addetto alle vendite, era anche un discreto tecnico di macchine da cucire. Tanto è vero che il Pistoja, sempre attento agli affari, volle sfruttare questa sua abilità e iniziò a commerciare, anche queste macchine industriali le "Phoenix", anch'esse destinate ai maglifici. affiancandole alle macchine da maglieria. 

Ma non contento, il manager decise di far marcare delle macchine da cucire molto semplici, destinate alle famiglie. Queste macchine erano prodotte dall'allora fabbrica milanese SAMMA, che le vendeva su richiesta anche neutre, senza nessuna marca. 

Dopo questa operazione, toccava ai più giovani attaccare le decalcomanie ad acqua sulle macchine, trasformandole in macchine WAHLT. 

Poi c'erano le rimagliatrici: a queste ci pensava un ragazzo magro come un deportato di Mauthausen, con il naso aquilino. Insomma, non era un bel ragazzo, ma se gli davi in mano una rimagliatrice fuori fase, dopo pochi minuti Roberto e Franco te la facevano cucire nuovamente alla perfezione. Al banco, essendo l'impiegato preposto, Antonio doveva annotare su una bolletta neutra, le bolle DDT e i registratori di cassa erano ancora di là da venire, la descrizione e l'importo degli articoli venduti. Poi consegnava l'originale al cliente e la copia, fatta con la classica carta carbone, la conservava nel cassetto per consegnarla alla contabilità dopo il controllo serale della cassa. 

Per questo impegno lavorativo, Antonio aveva a disposizione un fondo cassa di 5.000 lire, tutte in moneta spicciola per poter dare il resto, e un bonus di 1.200 lire al mese come rimborso per eventuali ammanchi.

Tutto stava filando liscio come l'olio, finché un giorno, durante il controllo serale della cassa, Antonio si accorse che mancavano duecento lire. Il ragazzo, non essendo molto pratico di conti, pensò di aver dato troppo resto a un cliente, quindi, imbronciato, pareggiò il fondo cassa dal suo bonus. Da quel giorno Antonio fu più attento: ogni volta che dava il resto, ricontava subito i soldi in cassa. Purtroppo, dopo un'altra decina di giorni, mancavano cinquecento lire. Antonio era un ragazzo molto timido e vergognoso, e per non fare brutta figura con il responsabile della filiale, con le lacrime agli occhi e dandosi del cretino, pareggiò ancora una volta la cassa. Dal suo bonus erano già sparite settecento lire, e il suo stipendio arrivava sì e no a cinquantamila lire al mese, quindi il bonus mensile, se non veniva intaccato, era una bella somma da aggiungere alla sua busta paga.

Dopo un mese, però, mancarono mille lire. Allora il poveretto si disse: "Qui c'è qualcuno che fa la pesca di beneficenza nella mia cassetta". Era una cosa abbastanza facile, dato che il boss aveva fornito la chiave dell'ingresso posteriore che dava su una vecchia corte ottocentesca a tutti, riponendo una fiducia immensa nei propri collaboratori. Più che altro, però, lo aveva fatto per permettere agli impiegati che dovevano partire presto per lavoro o rientrare tardi da una missione di non dover più sottostare agli orari del negozio.

La cassa era in una vaschetta a doppio fondo, con gli spicci sopra e la carta moneta sotto, e si trovava nell'unico cassetto del bancone, chiuso a chiave ma con la chiave infilata nella toppa. Antonio, consapevole che tutti potevano accedervi e attingere, prese il coraggio a quattro mani e si mise a rapporto dal direttore, raccontandogli per filo e per segno tutta la sua avventura. 

Pistoja, da vero figlio di buona donna, gli disse di non fare menzione della cosa con nessuno, che avrebbe provveduto lui a fare la sentinella con il Paci oppure il Casati con Antonio, oppure Antonio con lui, Il Casati avendo la dimora nell'officina era uno dei pochi che non aveva accesso alla filiale fuori orario e quindi, riguardo agli ammanchi, aveva un alibi perfetto. Passarono quindici giorni di appostamento, una sera in cui i quattro decisero di fare una pattuglia tutti insieme: Casati, Pistoja, Maoggi e Paci. Avevano deciso di cenare insieme con panini al burro e tonno e acqua minerale gasata, gentilmente offerti dalla moglie del boss.

I quattro stavano scherzando, forse un po' brilli per l'acqua gasata, e avevano anche l'autorizzazione al rutto libero. Infatti, quando era fuori dal suo ruolo di capo, il Pistoja diventava un ragazzaccio scherzoso e simpatico, e si mescolava volentieri a cazzeggiare con il personale. 

Proprio quella sera, mentre le sentinelle si raccontavano barzellette spinte, si bloccarono di colpo perché, verso le 22:00, sentirono dei passi avvicinarsi nel cortile posteriore. Il Pistoja, che non era esattamente magro, anzi tutt'altro, fece un balzo felino e spense le luci. Tutti si acquattarono in silenzio dietro le macchine da cucire e le rimagliatrici, mentre Antonio si nascose dietro una taglia-cuci nuovissima perché gli piaceva molto.

Una chiave stava girando nella toppa e Antonio aveva il cuore in gola, come se fosse stato lui a essere sorpreso a rubare. All'improvviso, la luce si accese nel lungo corridoio, illuminando parzialmente anche la prima parte del negozio e una parte del bancone. 

Sulla porta apparve solo una sagoma, dato che aveva la luce alle spalle. Era il fisico inconfondibile del segaligno Roberto La Corte, che si avvicinò al cassetto della cassa con disinvoltura e molto lentamente, aprendo il cassetto senza fare rumore. Ma non fece in tempo a infilarci le mani dentro, perché la luce centrale si accese di colpo. Antonio non ha mai dimenticato la faccia stralunata del suo collega di lavoro che, balbettando frasi sconnesse, continuava a ripetere: mi spiace, mia spiace!". Il più cattivo con lui fu Mario Paci che, tenendolo per un orecchio e a forza di calci nel sedere, continuando a urlare: "Ladro! Ladro!", lo fece sedere davanti alla scrivania del Pistoja, che impassibile come la statua di Tutankhamon, si mise a sedere ordinando: Antonio mettiti alla macchina da scrivere, che facciamo un verbalino che in effetti era solo una Garrotta per il povero Roberto mentre gli altri due se ne andarono a dormire.

Il Pistoja dettò ad Antonio una verbale capestro, in effetti una vera e propria confessione avvisando Roberto che ancora livido in volto, che se non la firmava lo avrebbe denunciato ai carabinieri, quindi al quel disgraziato non rimase che firmare la sua condanna a morte. 

Roberto con la sua sottoscrizione si era gettato con tutto il corpo nelle grinfie del Pistoja, che non denunciandolo e non licenziandolo, anche perché pragmaticamente non voleva certo perdere un tecnico molto capace, con la sua ammissione di colpa lo avrebbe tenuto per le palle per usare un francesismo, facendolo lavorare completamente al suo servizio sempre e comunque senza sé e senza ma. 

Il Pistoja aveva avuto anche la sua rivincita visto che Roberto forte del suo mestiere, sino ad allora non era stato molto gestibile, anche se aveva un capo molto duro come il Riccardo Pistoja; ma i soldini persi da Antonio andarono in cavalleria visto e considerato che nessuno glieli restituì. 

Passarono gli anni e Antonio, nel frattempo, era partito per il servizio militare assieme a Gianni il nipote di Catapano: uno nell'esercito e l'altro in marina, Gianni il tarantino come quasi tutti i ragazzi che provenivano dalle zone di mare. Nel frattempo, la ditta, grazie a una gestione disinvolta ma sempre lineare e onesta, si era molto ingrandita e gli affari stavano andando alla grande, favoriti dal fatto che gli anni Sessanta erano gli anni d'oro per tutto il settore tessile, in particolare per la maglieria. Un negozio nel centro di Firenze non era più adeguato alla mole di lavoro e alle macchine che vi gravitavano intorno, quindi la filiale si spostò in una zona più a nord, quasi in periferia, più vicina all'officina. La nuova sede disponeva di ampi locali che si adattavano bene alla mole di lavoro che si era creata nel frattempo, causa dell'aumento esponenziale del carico di lavoro, il gerente aveva dovuto effettuare nuove assunzioni. L'amministrazione era stata affidata a un giovane ragioniere meridionale, il ragionier Carboni, e l'ufficio amministrativo poteva contare su due nuove impiegate agli ordini della Vanna, promossa a capo ufficio per i suoi meriti sul campo, poiché nel frattempo Luciana si era licenziata per dedicarsi alla figlia, nata dopo il matrimonio con Franco Scianca dal quale ebbe anche un altro figlio. 

Le due nuove impiegate erano due ragazzine più o meno coetanee: una, Anna era molto timida e silenziosa ed era magra, forse più di Roberto; mentre l'altra, Loretta che aveva una lunga cascata di capelli biondissimi e due occhi chiari come il mare. Conscia della sua bellezza, era molto civettuola.

A causa della partenza per il servizio militare di due ragazzi, Antonio era stato via per quindici mesi, mentre Gianni, essendo in marina, ne aveva fatti addirittura ventiquattro. Perciò, in officina era venuto a mancare un operaio. C'era Carlo Casati, un tecnico esperto, ma il lavoro era aumentato così tanto che fu assunto anche un nuovo apprendista. Per il magazzino, che nel frattempo era diventato enorme, fu assunto un magazziniere, un uomo attempato con un paio di baffi a manubrio di nome Bruno. Era stato raccomandato al boss dalla moglie Giulia, che faceva la maestra magliaia e girava con Carlo Casati quando si consegnavano le nuove macchine: lui si occupava del montaggio e del collaudo, lei invece istruiva le clienti che avevano acquistato una nuova macchina e le aiutava a prendere confidenza con il nuovo strumento, prima che iniziasse la produzione. Giulia non era un'impiegata della filiale, ma veniva pagata a cachet, dato che era una magliaia professionista, viveva del suo lavoro, ed era ben felice degli extra che le venivano.

Oltre al motocarro, la ditta poteva ora contare su una Fiat Millecento familiare affidata al Gerente, che la metteva sempre a disposizione, ma solo per lavoro, guai altrimenti! Era stato acquistato anche un furgoncino Fiat ottocentocinquanta, sul cui pianale potevano stare due macchine, e un altro furgonato, sempre Fiat, sul quale se ne potevano trasportare quattro, che si potevano coprire con un grosso telone fissato con degli elastici ai ganci dello chassis in caso di pioggia. 

Al suo ritorno dalla leva militare, Antonio, che nel frattempo aveva preso la patente, lavorava come aiuto magazziniere e, quando c'erano delle spedizioni da effettuare, si occupava anche delle consegne nelle zone che gli erano state assegnate. L'Umbria e le Marche, dove fungeva anche da venditore, avvalendosi, come i vecchi e i nuovi produttori, di procacciatori d'affari trovati sul posto ai quali veniva elargito un compenso per ogni vendita segnalata. A questo punto, bisogna affermare che Antonio era diventato il pupillo del direttore convinto di averlo fatto diventare un buon venditore partendo da semplice ragazzo di bottega. Antonio era molto diligente e legato al suo lavoro, quindi un fedelissimo su cui si poteva sempre contare. Un giorno, mentre era in sede, il capo lo chiamò nel suo ufficio e iniziarono una conversazione che riportò Antonio indietro nel tempo e che avrebbe voluto evitare:  

Antonio, mi fido di te. Sei un ragazzo a posto e ho bisogno del tuo sostegno, sia psicologico che pratico, per questa operazione. Infatti, abbiamo una nuova serpe in seno: un altro ladro!» 

Non mi dica, signor Pistoja, ancora? 

Purtroppo sì! 

Ti racconto la storiauna mattina è venuta in negozio una cliente che stava servendo il magazziniere. Io ero lì a fumarmi una sigaretta e avevo notato che aveva acquistato: spolette per il bobinatore, paraffina in anelli e olio di vaselina. Quindi, essendo lì vicino, mi è venuto spontaneo chiederle: 

"Signora Cammelli, lei compra tutto da noi, ma per gli aghi ci fa le corna?"  Non, non li andrà mica a comprare dai Fratelli Calosci? Antonio! Lo sai come mi ha risposto? 

No, signor Pistoja, non ne ho la più pallida idea; 

Mi ha risposto che li compra comunque da noi, tramite Mario Paci, perché glieli porta a casa, dato che abita vicino dicendomi inoltre. 

Le scatoline sono piccole e poco pesanti, quindi non lo impegnano più di tanto. Per le altre cose ingombranti, invece, vengo direttamente qui con la mia macchina. 

Hai capito, Antonio, l'antifona? 

Riccardo, sarei stato più contento di non aver capito. Mario ci ruba gli aghi, ma qui non si finisce più. Quello che mi angoscia di più è che è stato lui il più cattivo di tutti quando abbiamo scoperto Roberto in flagrante. 

Guarda, Antonio, non voglio fare il Sigmund Freud della situazione, ma una cosa l'ho capita: prendendo a calci Roberto sono sicuro che voleva punire sé stesso. Chissà quanti accessori ci ha fregato in passato, puttana Eva! Ma ora abbiamo un magazzino regolare con tanto d'inventario, quindi controlliamo dall'ago al cannone e vedrai che risolveremo anche questa nuova e schifosa situazione.

Riccardo Pistoja, da cane da caccia qual era, prese subito in mano la schifosa situazione, dando l'impressione di godere nel fare queste indagini; forse una parte del suo sangue tedesco lo eccitava all'idea di smascherare un altro ladro, mentre l'altra parte di sangue ebreo lo spingeva verso il denaro, anche se non era il suo, essendo anch'egli un super stipendiato da settecentomila lire al mese. 

Una mattina, si recò a casa della signora Cammelli e la minacciò di denunciarla per incauto acquisto, se non fosse stata disposta a collaborare con lui. La signora, terrorizzata dall'idea di una denuncia penale, accettò di acquistare, con i soldi che lui le dette, solo due scatolette di aghi per la sua macchina. In parole povere, cosa altro poteva fare la signora Cammelli, messa alle strette da un uomo che, quando non scherzava, incuteva davvero timore? Figurarsi come si sarebbe dovuta sentire una donnetta di casa, peraltro vedova e che viveva da sola. 

Nel frattempo, il cacciatore di taglie mise Antonio, il magazziniere e Loretta in magazzino e li incaricò di segnare su un foglio bianco tutti i numeri di identificazione applicati con un adesivo sotto ogni scatoletta. Finito il lavoro, fece stilare alla Loretta un verbale con tutti i numeri di matricola degli aghi in magazzino e lo fece firmare da chi li aveva controllati, apponendo poi la sua firma in calce. La povera signora Cammelli, come da istruzioni, chiese a Mario di portarle due scatolette di aghi, per un totale di cinquecento pezzi. Mario, ignaro della trappola che gli era stata tesa, come aveva sempre fatto, andò a consegnargliele.

L'altra parte del piano prevedeva che, una sera prestabilita, il Pistoja si incontrasse con la signora per restituirle le due scatolette acquistate con i soldi anticipati e, in quell'occasione, volle con sé anche il fido Antonio. 

Puntuale, alla data stabilita, la signora arrivò con le scatoline in mano. Il Pistoja la ringraziò della collaborazione, sollevandola dall'ansia che si poteva toccare con mano, e le promise che non avrebbe sporto alcuna denuncia. La signora si accomiatò, dunque, con un grosso sospiro di sollievo.

La povera donna era all'oscuro del furto, fidandosi di Mario. In effetti, non aveva commesso nessun reato, poiché non poteva sussistere l'incauto acquisto. Mario era un dipendente della CO.M.UT e, per la ditta, effettuava le consegne a domicilio. Inoltre, abitava vicino a casa sua, quindi era del tutto plausibile che le riservasse la cortesia di portarle gli aghi a domicilio, visto che era una donna che viveva da sola. 

Appena la signora sbatté la porta degli uffici al primo piano, Pistoja e Antonio si buttarono sulle due scatolette di aghi, anche se non c'erano dubbi: erano il numero 5910.10003 e il 6001.5015. Solo un semplice controllo per avere la totale sicurezza e, come volevasi dimostrare, sulla lista erano lì segnati nero su bianco a testimoniare l'appropriazione indebita, o per meglio dire il furto. Pistoja, questa volta rosso in viso, quasi paonazzo, sbottò con un grido di gola: "L'abbiamo incastrato, quella merda. Ora me lo cucino a puntino io". 

Mentre diceva questo, con un pennarello evidenziatore sottolineò le matricole delle due scatoline e le bloccò con un elastico, posandole sopra il verbale che mise in cassaforte, a futura testimonianza. Bofonchiando frasi sconnesse, disse ad Antonio: 

Per oggi abbiamo lavorato abbastanza andiamo a nanna. 

Con il passare del tempo, Antonio si stava meravigliando perché non stava accadendo nulla, ma si ricordò di alcuni detti del boss, come "mettiti sulla riva del fiume e prima o poi il cadavere del tuo nemico passerà" o "la vendetta è un piatto che va gustato freddo". Quindi, si stava domandando che cosa stesse tramando il Pistoja, ma sicuramente qualcosa di clamoroso, se non addirittura teatrale. 

Non rimase deluso: ancora una quindicina di giorni dopo, sulla bacheca trovò affisso un ordine del giorno con su scritto: "Lunedì prossimo, alle nove del mattino in punto, tutti i dipendenti in ufficio dal ragionier Carboni per un'assemblea generale che ha per scopo il riordino delle mansioni". Ci siamo! Antonio pensando: 

"Voglio vedere fino a che punto vuole spingersi. Questa vendetta mi sembra proprio ghiacciata marmata".

Arrivò anche il fatidico lunedì. L'ufficio del Pistoja non era molto grande, quindi tutti i dipendenti erano in piedi in cerchio. C'erano proprio tutti: impiegati, magazzinieri e persino gli operai dell'officina. Dopo un silenzio lungo e inquietante, che fece venire l'ansia a tutti, compreso Antonio che naturalmente non aveva nulla da temere, il boss, bluffando, si alzò in piedi e, con voce impostata da istrione, disse: "Fra noi c'è uno sporco ladro. I carabinieri sono a casa di ognuno di voi a perquisire le vostre stanze, quindi chi sa di essere lo sporco ladro faccia un passo avanti". 

Antonio, che era l'unico a conoscere tutta la storia, si voltò istintivamente verso Mario Paci. Lo vide sbiancare in volto, quasi piegarsi sulle gambe, si mise le mani sulla faccia e scoppiare in un pianto dirotto. Allora, quello perverso del capo, con voce sempre impostata ma ancor più imperiosa, comandò:

 Mario, lei rimanga, tutti gli altri a lavorare, forza! Siete ancora qui! Via via scansafatiche! 

La radio aziendale, presente in ogni luogo di lavoro, mise al corrente tutti che il Paci aveva firmato volontariamente. Una lettera di dimissioni, con una scrittura privata che pattuiva una cifra più o meno corrispondente al maltolto, e che fu messa nella solita cassaforte insieme a quella di Roberto, che ancora giaceva lì.

La cifra patteggiata fra il Pistoja e il Guerri gli sarebbe stata decurtata dalla liquidazione. Diciamo che, tutto sommato, al Guerri era andata ancora bene.  Sarebbe stata un'infamia se si fosse venuto a sapere che un uomo prossimo alla pensione aveva una denuncia penale che poteva portare a una condanna.  

Questo racconto mette in luce un problema psicologico che forse va oltre la prima interpretazione di Riccardo Pistoja. Io, Antonio Maoggi, in qualità di scrittore di questo racconto e ignorante delle profondità dell'"io" inconscio, credo che chi si accanisce contro ogni forma di devianza che si discosti dalla normalità sociale o dai dettami del Padre Eterno, o chi per lui, che nel suo settimo comandamento fece scrivere a Mosè "Non rubare", se non si tratta di una vera e propria patologia come la cleptomania, che certo non era da imputare ai due galantuomini del racconto, che semplicemente cercavano di arrotondare il loro stipendio pensando di poterla fare franca, ma ignorando del tutto il detto: "Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi".

Forse, ma senza forse, Pistoja da stratega qual era, aveva sicuramente pianificato tutto alla perfezione e nei minimi particolari. Mentre io ho avuto la conferma che chi si accanisce su di un ladro vedi Mario Paci con Roberto La corte, inconsciamente vuol punire il ladro che c’è in lui, cosa confermata solo dopo pochi anni!

Difatti, come poteva pensare Roberto che Antonio non si sarebbe ribellato ai continui ammanchi di cassa? E come poteva pensare che, visto che la passava liscia, forse era diventato troppo ingordo, reiterando più volte il furto? Come poteva pensare che la cosa non sarebbe venuta a galla prima o poi, considerando che conosceva molto bene il boss e aveva avuto modo di constatare in questi casi la sua assoluta risolutezza, quasi maniacale e sadica. 

La mia conclusione è che chi grida "al ladro!" o "fuori i gay!" o "governo corrotto!" a ogni piè sospinto, inconsciamente è un ladro, un omosessuale o semplicemente si chiede: "Se fossi lì alla mangiatoia, lo farei anche io, mica sono più stupido di loro.

2020

LEGENDA

 

Paraffina serviva per quando si facevano le rocche, da un arcolaio a un bobinatore, la lana o il cotone, passavano da sotto un anello di paraffina, questa lubrificazione doveva servire a far passare il filato attraverso la frontura di una macchina da maglieria che cosi lubrificato e in particolare nei periodi invernali, si evitavano strappi e fori nel tessuto a maglia. 

Produttori: allora erano chiamati così i commessi viaggiatori, che a sua volta si servivano di segnalatori di vendita i "procacciatori d'affari" nelle varie zone di competenza. 3)

Rimagliatrici: macchine con un piatto circolare che servivano per attaccare i colli alle maglie, macchine di estrema precisione che erano affidate a lavoranti molto esperte. 

Aghi erano quegli accessori che andavano sulle macchine da maglieria e una macchina ne conteneva dai mille in su, a seconda della lunghezza della frontura, quindi appetibili ai fini della vendita, piccolo contenitore grande costo, La numerazione impressa sotto le scatolette degli aghi indicava: le prime due cifre l'anno di produzione, le seconde due il mese e dopo il punto di fermo, si trattava solo di un numero progressivo di matricola. 

Fratelli Calosci erano concessionari dell'altra macchina da maglieria in concorrenza con la Wahlt e che andava anch'essa forte commercialmente la Coppo. 


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