Si è sempre detto, fin da quando ho l’età della ragione, che si stava meglio quando si stava peggio, o, più semplicemente, che si stava meglio prima. Mai eufemismo più vero, perché non credo che si stesse meglio all’età della pietra, nel Medioevo o durante le guerre di indipendenza dagli oppressori Asburgici, Francesi o Borboni. Ancor più mendace quando si parla della leva obbligatoria, e ne ho ben donde, avendola provata sulla mia pelle nel lontano 1963. E questa volta parlo solo della mia nazione: l’Italia e mi prendo tutta la responsabilità di quel che asserisco.
Allora la maggiore età era a ventun anni e i giovani di allora non erano certamente come quelli di adesso. Molti di noi non erano mai usciti dalla propria città, se non per andare alle colonie estive, sia marine, che montane, che erano la prima esperienza di quella che sarebbe poi stata la vita militare. Si stava solo un mese, ma io contavo i giorni che mancavano per tornare a casa.
Primo luglio 1963: era da poco deceduto il papa buono Giovanni Ventitreesimo (Roncalli, 3/6) e, poco dopo, era asceso agli altari Paolo Sesto (Montini, 21/6). Verso le tre del pomeriggio, mi trovavo nel piazzale antistante la stazione Termini di Roma. Dicevo usando un eufemismo che non avevo mai visto l'uomo bianco e che, trovarmi solo e senza sapere dove sarei finito, non piansi, ma poco ci mancò. Mentre gli altri coscritti decidevano di entrare in caserma prima della mezzanotte, io, come uno scemo, presi il tram e mi recai alla Legione Allievi Carabinieri, che non mi stava aspettando, per cui passai il pomeriggio seduto sulla mia valigia.
Volevo diventare un carabiniere, non perché amassi incondizionatamente l'Arma, ma soprattutto perché alla fine dell'addestramento (tre mesi) avrei percepito uno stipendio di ben quarantamila lire al mese, contro le quattromila seicentocinquanta se fossi andato nell'esercito. L'addestramento era durissimo e il rancio era talmente schifoso che usare il terzo eufemismo era dire poco. Verso la fine, sono arrivato a pesare sessantasette chili su un metro e settantasei di altezza. Per la fame, ho ciucciato anche i noccioli di pesca e mi sono spaccato il palato mangiando panini con la mortadella che comperavo allo spaccio con una cifra modica, se ricordo bene, cinquanta lire, ma che comunque venivano a mancare dal mio budget, che, non lavorando, era a totale carico della mia famiglia.
Verso la fine dei tre mesi, mi ammalai di Rosolia e fui ricoverato all’ospedale del Celio, lo stesso ospedale in cui, nel 1976, fu ricoverato per un tumore terminale il criminale nazista Herbert Kappler. Stetti in corsia per dieci giorni e mi furono dati quindici giorni di convalescenza. Al ritorno, con questa scusa, adducendo il fatto che non avevo potuto completare la fase istruttiva in aula, fui congedato e trasferito in fanteria. Sul foglio matricolare fu scritto: Trasferito nell’esercito, perché non adatto agli speciali servizi dell’arma, articolo 65 del regolamento. Ma nessuno mi ha mai saputo dire cosa dicesse espressamente quell’articolo. So solo, e ne sono quasi certo, che la questione principale era quella di essere un simpatizzante della bandiera rossa, cosa che non ho mai nascosto. E non dimentichiamo che l’allora comandante dell’arma era il golpista Giovanni Di Lorenzo, con tanto di monocolo all’occhio, che durante la sua unica visita ci guardava come il pastore guarda le sue pecore.
Sono stato inviato presso la caserma "Cavalli" di Firenze (18/09/1963), originariamente costruita come Granaio dell'Abbondanza nel 1695 per volere di Cosimo III de' Medici. Nel corso dell'Ottocento divenne un panificio militare, per poi trasformarsi nella sede della caserma dove si svolgevano le visite di leva. Il capitano comandante mi prese a ben volere e, dato che ero un commerciale, mi mise in ufficio per sbrigare le pratiche che fino a quel momento aveva svolto lui. Per me fu una pacchia: la sera andavo a dormire a casa e alle sette rientravo in caserma come un normale impiegato, anche se sottopagato. Ma c'è sempre un "ma". Il figlio di un importante corriere fiorentino, per non fare nomi "Pertichini", ebbe una forte raccomandazione e prese il mio posto, mandandomi a fine ottobre a Orvieto, all'80° Reggimento Fanteria, Caserma Piave, un CAR (Centro Addestramento Reclute). Anche li mi presentai all'ufficio selezione, dove rimasi fino alla fine della ferma (24/10/1964). Fui accolto come un naufrago, ma, essendo un buon dattilografo, rimasi lì quasi a far niente, se non quando le reclute dovevano essere trasferite ai reparti.
Tredici mesi di naja vera: dormivamo sui pagliericci con lenzuola che, se ti strofinavi troppo, ti provocavano abrasioni. La sveglia era alle cinque d’estate e alle sei d’inverno. Quando eravamo al massimo della forza, vivevamo duemila militari. Il rancio era cucinato in cucine alimentate a gasolio e tutto sapeva di nafta. Una sola tazza doveva bastare per il caffellatte della mattina e per tutto il resto, una pagnotta per tutto il giorno. Alla fine del rancio arrivavano i maialai dalla campagna che portavano via i bidoni di quella brodaglia e del solito spezzatino giornaliero. Fortunatamente, una volta in libera uscita, cosa che spesso ci veniva negata perché non avevamo i capelli tagliati corti o i calzini d’ordinanza, ci rifugiavamo da "Monaldo", una trattoria che ci trattava bene e ci faceva mangiare con al massimo quattrocento lire. Ma una sera l’infame mi fece tirare i calzoni e, non avendo le mutande da sbarco, cioè quella taglia unica con il laccio che, stringendolo, andava bene sia all'ossuto che all'obeso, mi rimandò indietro senza appello.
Durante la mia ferma, non ho mai visto quello che ci spettava secondo la tabella: cioccolato, frutta e limoni. Se una goccia di vino da mezzo litro cadeva per terra, friggeva come acido muriatico, quindi era imbevibile. Pregavamo che a cena ci fosse almeno del formaggio, così potevamo mangiare qualcosa, e quando arrivavano le scatolette di carne verdi con la scritta E. I (Esercito Italiano) avevano stampigliato sul coperchio la data: GIURO! 1945!
Poi ho capito l’antifona: un certo Argenio, un romano che lavorava allo spaccio, mi ha detto che il caffè (15 lire) era misurato con mezzo misurino e che il ricavato veniva diviso a metà con il maresciallo responsabile. I marescialli cambiavano spesso, ma rubavano a man bassa. Ecco perché a noi non arrivava ciò che ci spettava, e anche il formaggio, perché era scarso? Perché le forme prendevano altre vie, l'ho visto con i miei occhi quando ero di guardia. Qualcuno potrebbe obiettare: perché non gli hai sparato? Perché, in primo luogo, anche se avessi voluto, cosa che non avrei mai fatto, i nostri fucili erano scarichi. Infine, sarei tornato a casa, mandando a quel paese con quella gentaglia, al cui confronto i corsari, i bucanieri e i pirati delle Antille erano solo dei poveri ladruncoli. Ci sarebbero molte altre cose da dire, ma molte le ho già scritte nel mio libro La naja.
Concludendo posso dire a ragione veduta posso dire che non si stava meglio prima almeno quando eravamo gioco forza diventati impiegati dello stato.
Il Barone
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