Caro Pietro Senaldi,
la sua dichiarazione – che più che un’opinione
sembra un rigurgito ideologico in salsa padana – non meriterebbe risposta se
non fosse che, sotto la patina del paradosso e del disincanto, trasuda un
veleno ben più grave: quello del disprezzo razzista, del pregiudizio sociale,
dell’ignoranza elevata a strumento di comunicazione.
Lei scrive – o forse vomita – parole che
richiamano un’Italia che pensavamo superata, un’Italia spaccata, gerarchizzata,
coloniale nel proprio immaginario. L’idea che i meridionali “possono anche
morire di fame” se non si piegano alla logica del pendolarismo forzato, è un
insulto non solo alla Costituzione – quella che all’articolo 3 garantisce
l’eguaglianza e all’articolo 1 fonda la Repubblica sul lavoro – ma alla dignità
stessa della persona.
Non c’è nulla di provocatorio o “liberale” nella
sua esternazione. C’è solo un pensiero tossico, che costruisce l’identità di
una parte d’Italia sul disprezzo dell’altra. Milano, la città che lei elegge a
faro del progresso e del merito, non si eleva affatto con le sue parole. Al
contrario: ne esce rimpicciolita, trasformata da capitale economica in colonia
padrona, da crocevia cosmopolita in feudo arrogante.
Lei scrive che il Sud è “più vicino all’Africa che
a Milano”. Una frase infelice, certo, ma soprattutto rivelatrice: nel suo
mondo, “Africa” è sinonimo di inferiorità, di emarginazione, di zavorra da
scaricare. Ma sa, caro Senaldi? Ci vuole ben più di una tastiera per riscrivere
la geografia del cuore. L’Africa è madre, culla di civiltà. Milano, senza il
Sud, senza i suoi figli, senza le braccia che hanno costruito metropolitane,
case, fabbriche e uffici, sarebbe una città dimezzata, o peggio: vuota.
Parla poi con sarcasmo di affitti in nero, di
sfruttamento, di spese alimentari: come se il precariato e la violazione dei
diritti fossero una forma di ospitalità generosamente concessa. Ma lei non
denuncia lo sfruttamento: lo legittima. Non combatte le disparità: le rafforza.
Questo, caro Senaldi, non è giornalismo. È ideologia travestita da cinismo.
E a chi, come lei, pretende di indicare la rotta
della modernità guardando con disprezzo al Sud, ricordiamo che l’emigrazione
non è una scelta, ma spesso un obbligo. E che “spostarsi per lavorare” non è un
dogma economico, ma una condanna sociale quando è l’unica via. La
desertificazione umana e culturale del Mezzogiorno è figlia non della pigrizia,
ma di politiche predatorie, di investimenti squilibrati, di una visione
unitaria mai davvero compiuta.
Caro Senaldi, l’Italia che lei disprezza è anche
l’Italia che paga il prezzo di un dualismo strutturale costruito proprio da chi
pensa come lei. Ma si ricordi: i meridionali che emigrano non si “portano
dietro quattro stracci”, come scrive con sprezzante ignoranza. Si portano
dietro intelligenza, cultura, resilienza, e spesso una coscienza civile che
manca a chi, come lei, ha fatto dell’arroganza un mestiere.
Aspettiamo che l’Ordine dei Giornalisti si
esprima. Intanto, ci esprimiamo noi. E le diciamo che non siamo più disposti a
tollerare la violenza delle parole. Il Sud non chiede pietà. Chiede rispetto. E
da oggi, se non lo riceve, lo pretende.
Firmato:
Prof. Vittorio Politano

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